Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo
Pier Paolo Pasolini
Giorno venticinquesimo
L'ultimo caso dell'ispettore Del Bosque
Schierare o non schierare Torres? L'ispettore Del Bosque si alliscia i baffi e risolve il caso. Fernando va in panchina.
I ventidue in campo inalano la tensione della finale ed espirano un calcio sincopato, gretto. Ci siamo fatti fregare, ce ne accorgiamo presto: non sono Robben e Sneijder i simboli di questa Olanda, meglio rappresentata dal rude Van Bommel. È il writer che al posto dello spray usa i tacchetti e invece che sul muro d'asfalto dipinge sugli stinchi, sui polpacci degli avversari. Lascia segni difficili da cancellare. Impartisce l'esempio anche al resto della crew, il clima si incattivisce. La polizia, interpretata dall'inglese Webb, qualche volta coglie in flagranza le due bande rivali ma lascia tutti a piede libero. Zero a zero, undici contro undici alla fine del primo tempo - è questa la notizia.
Gli apostoli del luogo comune predicano che in queste condizioni è la squadra arroccata il più delle volte a godere del vantaggio della situazione. Hanno ragione. L'alieno Robben ha sulla corsa due colossali occasioni, rivelandosi infine terrestre, troppo terrestre. Sulla prima, la più ghiotta, il mio amico Alberto, polpo de' noantri che aveva scommesso in tempi non sospetti sugli orange campione del mondo, capisce che non passerà all'incasso.
"Ahimé! Senza speranza, come io mi sento, pure alla speranza m'abbandono!".
La morsa si allenta, i tulipani percepiscono di essere persi ma, come l'Olandese volante di Richard Wagner, ci credono ancora. Il capitano del leggendario vascello è destinato a navigare fino alla fine dei tempi in tutti i mari del mondo, a meno di non trovare una donna che gli offra un amore sinceramente fedele. Soltanto ogni sette anni gli è però concesso di scendere a terra per cercarla. L'Olanda calcistica ne ha dovuti aspettare ventidue. Invecchiata, non ha l'avvenenza di Cruijff né l'eleganza di Van Basten, appena i muscoli di Van Bronckhorst. Gli spagnoli hanno adesso il controllo, le controffensive arancioni si fanno sempre più rade, i marinai si rintanano sottocoperta, nelle stive. Quando perdono un uomo, il mozzo Heitinga, si capacitano che la maledizione non andrà estinta. "Le vele al vento! L'ancora levate! Dite addio in eterno alla terra!". Ad Iniesta l'onore di ricacciarli in mare.
Festa rossa.
Vince la squadra più forte, non succede sempre.
La Spagna non solo di Xavi, Iniesta, Villa, Piquet, Ramos, Fabregas, ma quella anche di Nadal, Gasol, Lorenzo, Alonso, Contador.
Le piazze si riempiono di indigeni e turisti. Non esisterà la notte, non esisterà il domani: la fiesta ha un inizio, non una fine. Sono spagnoli, è movida in ogni caso. Figuriamoci adesso che hanno un motivo per festeggiare.
rubrica tratta da Virusmedia.it
Giorno ventiquattresimo
Shaolin soccer
Da una finalina ti aspetti briglie sciolte. Le ottieni. Continui capovolgimenti di fronte, tante reti. Una partita che non è propriamente bella; divertente, quello sì. In più, Forlan regala il gol gioiello del campionato, un tiro al volo con tecnica shaolin che aggira il difensore e pietrifica il portiere. Un gesto raro in questo mondiale che ha visto poche reti d'autore, non ascriviamo vi prego la colpa soltanto ai palloni. Ho visto numeri straordinari con un supersantos al campetto sotto casa. C'è stata una regressione del gesto, della giocata, in Sudafrica; quasi si sia arrivati ad una saturazione, quasi si sia in attesa di qualcosa di nuovo.
Germania e Uruguay hanno disputato un ottimo campionato, sono arrivati più in là delle aspettative. Gli uomini di Tabarez sono la compagine sudamericana che si è meglio comportata, a conti fatti. Ai brasiliani, padroni di casa nei prossimi mondiali, corre qualche brivido lungo la schiena. Stiano tranquilli: non si intravedono gli Schiaffino, i Ghiggia, i Varela, autori del silenzio più assordante che la storia del calcio ricordi.
Giorno ventitreesimo
Piedi di fata
Monta un sentimento antispagnolo lungo lo Stivale. Lo si respira agli aperitivi, nei bar, nelle piazze, sulle panchine, per le vie del centro, negli uffici, nei negozi: "Tutti fuorché loro".
Cosa porti a preferire pegiudizievolmente, ad esempio, gli sturmtruppen alle furie rosse può essere oggetto di spicciola analisi neosociologica. Poco c'entrano aspetti strettamente legati alla pelota, avendo gli iberici già mostrato molecole di gioco che si vanno a cristallizzare stasera. I tedeschi non riescono a sfibrare le fitte trame di palleggio con le ripartenze che, sin qui, li hanno resi prolifici e vincenti; si fanno avvolgere invece nella matassa tesa da Xavi e Iniestra, mastri di sartoria stasera, altro che haute couture, qualità e quantità eccelse come da rinomata bottega artigianale di provincia. La Spagna passa con Carluccio Puyol, tutt'altro che raffinato ricamatore, non nuovo però a prodigi atletici con incornata; ha poi il solo (solito?) demerito di non raddoppiare - dannato Pedro, quella palla si passa cento volte su cento!
Non c'è bisogno di scomodare Weber e neppure Bonomi per diagnosticare una classica invidia nei confronti dei vincenti. Tutto lì? Sono festosi questi campioni d'Europa, supponenti, vanitosi e "convinti" più di quanto riescano ad esserlo gli italiani. Non si svegliano presto, la loro giornata comincia a mattinata abbondantemente inoltrata, tirano a notte le sere tra una movida e l'altra, riescono a lasciarsi i problemi alle spalle con maggiore facilità. Dopotutto gli iberici, anche col gioco sul campo, rappresentano la proiezione (foss'anche solo ideale) dei nostri sogni più audaci. Per questo, per consolare la nostra mediocrità, ci piace vederli fallire.
Fingevamo di volerlo, qualche anno fa, uno Zapatero, ben contenti di votare nel semibuio della cabina tra alternative che più ci somigliano, ci rappresentano. La sfida al potere ecclesiastico, le unioni gay, i diritti civili, la cultura... Tutte balle, non siamo ancora pronti. Siamo segretamente contenti, ammettiamolo, che sulla Spagna la crisi si sia abbattuta più ferocemente che da noi: possiamo appendere anche qui le giustificazioni, dare conforto alla nostra frustrazione, illuderci di stare meglio, di aver fatto le scelte giuste. I loro successi nello sport ci costringono a fare i conti con quello che saremmo potuti essere ma che non siamo, colpa nostra, diventati.
Giorno ventiduesimo
Trattamenti per la ricrescita
Potranno pure alzare la coppa, ma questi olandesi non diranno niente sull'intercambiabilità dei ruoli, sulla libertà che è partecipazione, sulla giustizia sociale. Non entreranno nell'immaginario comune come quei corpi agili e sottili che per due edizioni consecutive furono sconfitti nel punteggio, nel punteggio, dalle squadre di casa. Non cambieranno il mondo.
Questione di capelli. Corti, addirittura radi sulle teste stressate dei calciatori più rappresentativi degli orange contemporanei: per nulla ricordano le chiome fluenti e scomposte che facevano da ossimoro all'ordine tattico con cui si disponevano in campo negli anni Settanta.
Chiedo venia per la triste e forzata metafora tricologica, ma se mai si volessero ricercare gli eredi di quella sensibilità artistica si dovranno citare i Gullit e i Van Basten, non gli Schneider e i Robben. Nell'Olanda campione d'Europa 1988 il sestante si orientava sul versante più estetico, partiva sì dal gruppo per stabilizzarsi sul gesto, sull'atto puro che uno degli undici - facilmente il cigno di Utrecht - regalava come prosecuzione talvolta naturale dell'azione, non di rado come momento a sé stante, isolato dal contesto, dalla terra, dal terreno, dal terrestre.
Troppo abbottonata, giustappoco rispettosa dei pronostici questa Olanda. Se si esclude la sfida con il Brasile, il suo percorso, dalle qualificazioni ai gironi, è stato affatto seminato di mine. Trovare in semifinale il pur volenteroso Uruguay di Tabarez è l'ennesima buona combinazione. Anche stasera la straordinarietà del tiro di Van Bronckhorst e poi i cinque minuti d'oro di quei due mettono al riparo da eventuali errori. La regolarità, dopotutto, non è che una paziente ricerca dell'episodio.
Giorno ventunesimo
Troppo bella per essere Germania
Sarebbero questi i figli di Bierhoff, gli eredi di Gerd Müller? Che fine hanno fatto i "bietoloni" scoordinati e cinici, i "patatari" ruvidi, i killer d'area furbi e spietati? La storia ci ha insegnato vederli primeggiare con la costanza, con il rigore tattico, l'intelligenza, la tenacia, raramente con il gioco. Giovani e forti ce li aspettavamo; belli, di sicuro no.
Invece hai la Germania che non ti aspetti. Quella che stritola nella sua morsa il talento di Messi e compagni (e fin qui...), ma che riparte con velocità corale, impone le proprie distanze, alza il ritmo ripetutamente, domina il rettangolo. L'orchestra diretta da Schweinsteiger ripropone la stessa musica in quattro/quarti suonata contro gli inglesi. Gli argentini si lasciano ammaliare da una melodia eseguita da interpreti inusuali e ne restano così semplici spettatori. È una nuova generazione di eroi, oppure dove sta il trucco?
Joachim Löw. L'uomo che dal nome, dalla faccia, dall'acconciatura e perfino dall'abbigliamento pare uscito da un telefilm dell'ispettore Derrick, ha saputo, più d'ogni altro, dare un'impronta alla squadra che allena. La Germania di Löw rappresenta in campo le contraddizioni di una terra malbenedetta, che negli ultimi secoli ha dato alla luce pragmatici industriali e fini pensatori, ingegneri e studiosi di greco antico. Veloce nell'idea, coordinata nel movimento, precisa nella conclusione.
Parafrasando Fichte, essere belli è cosa da nulla, divenirlo è cosa celeste. La Germania bella non lo è mai stata. Sta provando a diventarlo. Ma attenzione: provare a rinnovare la Weltanschauung, nel calcio, è un processo lungo e faticoso, difficilmente a lieto fine. Perché il Fußball non è una macchina, e i calciatori si portano nelle scarpe, più che sulla testa, la terra che hanno calpestato i loro avi.
Giorno ventesimo
Latte e nesquik
I brasiliani vivono questa sconfitta come una liberazione. Sanno che al loro mondiale, quello del 2014, sorseggeranno con gusto delizioso caffè, non il latte e nesquik che mister Dunga ha servito loro in Sudafrica. L'eliminazione, figlia di un secondo tempo disastroso, è pur sempre il carro su cui il vecchio sole tornerà a sorgere da Copacabana, a roventare le lamiere delle favelas dove una palla è ancora danza, gioia, respiro.
Eccolo Gyan, dopo aver sbagliato il tiro libero sulla sirena dei supplementari, ripresentarsi dagli undici metri per il primo tiro della serie. Lo mette dentro, quel pallone pesante come un'epoca e duro come la storia. Una storia che non si scriverà, non stasera, non in terra d'Africa. I fratelli non accedono alle semifinali, il coraggio di Gyan non serve a mondarlo dal peccato consumato pochi minuti prima. Il delizioso Falcão non ebbe la metà di quel coraggio quando si trattò di decidere i rigoristi della finalissima di coppa Campioni contro il Liverpool, in casa, a due passi dal Colosseo; eppure sarà sempre l'ottavo re di Roma. Splendori e miserie del gioco del calcio. Proprio el loco Abreu pare uscito dalla penna di Galeano, la panenka con cui chiude il sipario è gesto che guadagnerà un intero capitolo del prossimo libro dello scrittore uruguaiano.
Giorno diciannovesimo
Uguali, vincitori e sconfitti
Oltre alle simpatiche emissioni acustiche delle vuvuzela, di questi mondiali sudafricani resteranno le immagini dei tifosi (?) sugli spalti. Una volta erano ritratti di uomini sull'orlo del baratro in preghiera per un miracolo nei minuti finali, lacrime di rassegnazione, sguardi persi nella rappresentazione di una tragedia che si stava consumando; oppure pancioni festanti ebbri di birra, abbracci intensi di compagni per una notte, esorcismi canori. Oggi sono donne belle e semivestite, truccate dall'estetista con i colori della nazione, posizionate nei punti dello stadio a più alta probabilità di inquadratura, coordinate nell'abbinamento bandiera/calzino, composte nell'esultanza per non sgualcire l'abito; oppure pagliacci ipertatuati, stravaganti, forzati nella manifestazione di una passione che non c'è, alla pietosa ricerca della telecamera.
Ogni accenno di emozione di quei volti si frantuma quando ci si accorge dell'inquadratura: diventano tutti uguali, vincitori e sconfitti, il vicino indica con sorpresa il maxischermo e tutti a gioire e salutare per aver guadagnato quel fotogramma di immortalità. Invero saranno morti nell'istante successivo: verranno sostituiti dalla prossima ripresa, un altro identico a loro apparirà e quell'istante di mondovisione sarà provincializzato al solo distretto di amici che hanno riconosciuto l'amico e proveranno a telefonargli, a mandargli un simpatico sms per confermare di essere stati testimoni dell'evento.
Quanto manca perché le agenzie arrivino a corrompere i cameraman, i fotografi, i registi per guadagnare una pubblicità per le loro soubrette? Lì dove c'era la sacralità di un rito popolare, sugli stessi gradoni, sfilano adesso le sexy modelle del calcio. La loro bellezza statica sugli spalti miseramente si contrappone alla dinamica di un gesto che può ancora manifestarsi sul campo (nonostante anche lì ci siano non pochi valletti...). Il telespettatore non chiede altro, istruito com'è ad inzuppare la propria frustazione in quelle fantasie di plastica.
Tra Spagna e Portogallo non succede moltissimo. C'è la tensione classica di un derby, in questo caso della penisola iberica, ma non ci sono espressioni stilistiche degne di nota. Il Portogallo tradisce la sua storica predisposizione al palleggio e non fa possesso, così prova a innestare delle ripartenze che diventano un Ronaldo-controtutti, ma la Spagna non è il Mallorca. Così ai giallorossi è sufficiente accelerare - ammetto che la sferzata è contestuale all'uscita dal campo di Torres - per portare a casa il risultato.
Le telecamere ritornano sugli spalti. Nessuno esulta e nessuno si dispera più di tanto.
Giorno diciottesimo
Allegro moderato
Poche righe più in là, avevo previsto sofferenza per i brasiliani contro i cugini cileni. Invece, senza esagerare, i verdeoro vincono nettamente e anche con un certa tranquillità. Potrei sbugiardarmi appellandomi all'assenza di Mati, ma la verità è che non sono bravissimo con i pronostici (vero Giò?), almeno con quelli a breve distanza. Sulla lunga tendo a prenderci (Spagna 2008, vero Giò?).
Questo Brasile convincente non mi convince, tuttavia. Manca il sorriso, quello autentico, alla nazione che più d'ogni altra ha interpretato con tempo vivace-allegro lo spartito di De Winton e Thring. Di questo allegro-moderato, quando va bene, non ci si può accontentare: Carlos Caetano Bledorn Verri detto Dunga è un direttore d'orchestra che a quelle latitudini non riscuoterà, nemmeno se riuscirà a portare a termine l'opera, la standing ovation. Un timido applauso, nel caso, ma di sicuro non gli chiederanno il bis.
Giorno diciassettesimo
Il tramonto dei vincenti
La voce dei tifosi si erge finalmente sul ronzio, regala allo spettatore televisivo una parvenza di stadio. Se la superiorità inglese è sugli spalti, in campo è solo Germania. Ci si impiega poco a capirlo: i tedeschi riescono ad infilarsi con facilità tra le due linee, e si sa quanto amino il burro. Perché quest'oggi la difesa e la mediana anglosassoni sono fatte di burro, Klose, Podolski e Moeller le lame che trafiggono ripetutamente quel che resta di una squadra lontana dallo spirito originario.
Si scioglie così, insieme a Lippi, l'altro allenatore "vincente" made in Italy. Colui che nuovo olimpo avrebbe dovuto alzare in Terra d'Albione. Con disonore, nel gioco e nel punteggio: a dimostrazione di quanto siano fatue e approssimative le definizioni in uno sport in cui il risultato è frutto di un sistema di equazioni indeterminato e in cui negli almanacchi Inzaghi è sopra a Van Basten.
La Gran Bretagna è un'isola che, altezzosa e irriverente, guarda l'Europa al di là della Manica. Presenta tre nazionali distinte. L'unità monetaria è la sterlina, ancora, non l'euro. Con Capello fallisce ancora il maldestro tentativo di continentalizzazione già avviato da Eriksonn. L'identità, nel calcio, va tutelata perché residuo ancestrale del ragazzino che gioca sotto casa, anche quando poi calpesta l'erba mondiale. Sradicarla, lasciando frequentemente prevalere un fattore difensivistico ammantato di ordine tattico, non porta lontano. Lo capirà presto anche Dunga, forse già subito con il Cile.
La reazione dopo il doppio svantaggio dice poco. Gerrard non è il solito gladiatore, Roo è un ectoplasma. Per provare a cambiare l'inerzia, sarebbe utile il passo di Walcott, ma è stato lasciato a casa. Da un primo piano stretto, scopro che James non è umano, ma è un avatar. Probabilmente è l'avatar di Green: così si spiega l'inconsistenza e la decisione, rivelatasi non brillante, di cambiare il portiere dopo la papera iniziale.
La storia, dunque, la scrive la Germania. L'episodio da passare alla letteratura è il gol non assegnato di Lampard, perché rimanda alla rete fantasma della finale del '66 tra le stesse due squadre e non per speculare in giustificazioni su un eventuale cambio di partita. I tedeschi stravincono, con merito. Punto.
Giorno sedicesimo
Bave
Confesso una scarsa attenzione per la parte alta del tabellone, quella che porterà in semifinale l'Uruguay o il Ghana, sebbene gli africani siano considerati da mio padre tra i più brillanti del torneo. Il risultato simmetrico dei due incontri non sorprende, un po' come queste bave che continuano a colare dal cielo a tratti blu.
Giorno quindicesimo
La macarena brasiliana
Guardo gli ultimi dieci minuti della partita con le vuvuzela in un orecchio e il ronfare sommesso di mio padre nell'altro. È la prima volta che mio padre, da sempre tifoso del Brasile, si addormenta durante un incontro mondiale dei verdeoro. Il ritmo del suo respiro pesante e profondo scandisce il palleggio futile e conservatore dei brasiliani. Alla contabilità del Portogallo lo zero a zero va ascritto nella colonna delle attività, ragion per cui i lusitani non si spremono più di tanto. La partita è fatta della stessa materia di cui è fatto il sonno. Una gestione del risultato minimo che ti potresti aspettare da qualsiasi squadra. Non dal Brasile.
Il processo di europeizzazione del Brasile comminato, ma non iniziato, da Dunga sta progressivamente prendendo piede. Lo si è visto in altri casi, la spersonalizzazione del carattere nazionale può portare a risultati a breve termine, ma a lungo termine è destinata a fallire e generare gravi conseguenze. Non c'è il solito sorriso sui volti dei calciatori e dei tifosi sugli spalti, e la samba sta diventando una macarena.
Giorno quattordicesimo
Kramer contro Kramer
Così anche Lippi, adesso, è contro Lippi. Contro le sue scelte, il suo approccio, la preparazione tecnica e tattica data ad una squadra smidollata, stanca, vecchia. Furbizie di un'Italia in cui negare e negarsi è prassi, in cui la verità si perde nei rivoli delle smentite e delle controsmentite di modo che non si sappia chi ha detto cosa, in cui la coerenza è un disvalore e il voltagabbanismo è sintomo di intelligenza.
Ma Lippi è uguale a se stesso, in questo è coerente. Spocchioso e presuntuoso, con un decimo della preparazione di un Hiddink e un ventesimo delle capacità dialettiche e comunicative di Mourinho, lo è sempre stato. Ha voluto indossare a tutti i costi la maglietta numero 10, quella del fantasista, per dimostrare che sarebbe bastata la sua sapienza per vincere le partite. La sua capacità di creare e gestire il gruppo. La sua superiorità.
Io non lo odio più di ieri. Odio (sportivamente, s'intende) invece quello che oggi lo insultano e prima lo esaltavano. "Ho fiducia nelle scelte del ct", "Lippi sa quello che fa". Commenti autorevoli che riletti oggi fanno sorridere. L'Italia casuale, mi dispiace dirlo, è quella che ha vinto i mondiali di Germania. La vera Italia è questa. Quella che non riesce a giocare una partita decente nel girone più scarso, che lascia a casa il talento in favore dei muscoli senza cervello. E che si sarebbe potuta qualificare con la conclusione di Pepe, e di lì anche vincere il mondiale. È giusto che un episodio cambi la storia? Cambi le sorti dei protagonisti, il significato del lavoro?
Lippi subirà il fatto che in un Paese dalla memoria corta, la scottatura recente cancella anche le glorie di una vittoria remota. "Non può succedere. Ma se succede..." aveva dichiarato. I sogni si sono infranti sull'ennesimo urlo sguaiato di Caressa al gol in fuorigioco di Quagliarella. Vincere per dimenticare. Ebbene, non è successo.
Giorno tredicesimo
Premesse di storia
Dieci minuti di Inghilterra si sono visti. All'inizio della ripresa, i figli della regina suonano la carica e stringono d'assedio i rivali per chiudere la partita. Non è possibile accontentarsi di qualche sporadica azione, ne sono consapevole: mal-abituato al piattume delle prime due gare, mi sforzo di cogliere ogni segnale di ripresa. Gli inglesi sono più ordinati, sebbene la posizione di Gerrard spesso defilata non convinca, ma sulle spalle luccica ancora della forfora di paura che non fa bene al gioco e danneggia, di conseguenza, sovente il risultato. Stavolta l'uno a zero, il classico risultato mascellare (inteso come del mascellone Capello), è utile a superare il turno ma non a posizionarsi nella zona franca del tabellone, quella che avrebbe voluto dire semifinale in tutta probabilità.
Si dia inizio al mondiale, allora. Gioisco al gol degli Usa, conscio che il secondo posto nel girone significhi sfida agli ottavi con l'odiata Germania e poi, sulla carta, Argentina ai quarti. Il percorso di una pretendente al titolo deve imbattersi in storici nemici, deve romanzarsi di liriche tenzoni. Le prossime sfide sono premesse di storia, indipendentemente da chi la scriverà. Mi auguro che sia la penna di Rooney, sin qui mai intrisa nell'inchiostro, o la grinta felpata ed elegante del capitano, a firmarla. Sia pure con il sangue.
Giorno dodicesimo
Demarcatori
Statisticamente, il dato può portare a due conclusioni: i campionati del mondo sono vetrina per i Paolo Rossi, gli Schillaci, i Salenko, i Klose, per strane coincidenze che si riprogongono con cadenza quadriennale; oppure i gol pesanti arriveranno negli scontri diretti, come è lecito attendersi. «Con i play-off per me finisce la noia, inizia il divertimento». Scopriremo presto se la massima di Michael Jordan, il più forte cestista d'ogni tempo, potrà riferirsi anche ai mondiali 2010 di tutt'altro sport.
Giorno undicesimo
Gioco di specchi
Non capisco perché, a partita chiusa grazie a una doppietta di Villa, al minuto 62 sia lo stesso Villa a presentarsi sul dischetto e non Torres. Fernando cerca con insistenza il gol che potrebbe sbloccarlo, tutti sanno quanto l'attaccante (uno dei più forti del mondo, se non il più forte) serva a questa Spagna che, con lui e Iniesta, darebbe pieno credito ai pronostici che la davano inizialmente favorita. Poco conta che il rigore sia poi calciato fuori: in quel momento cos'era più importante, inseguire la classifica cannonieri o provare ad aiutare il compagno?
La lente d'ingrandimento sul dettaglio vuol scovare a tutti i costi un possibile limiti delle furie rosse. Il mio amico Giò, che sta lavorando a Siviglia, già da tempo sostiene che lì "sono troppo convinti" e per questo non vinceranno il mondiale. La palla gira sapientemente, magari non sempre con la giusta velocità, eppure la trappola del narcisismo è dietro l'angolo; il gioco potrebbe impantanarsi in una sala degli specchi in cui si fa fatica a distinguere le immagini riflesse da quelle reali. C'è ancora tempo per evitare di infilarvisi.
Nota non di poco rilievo: ho perso 50 euro per aver puntato "over" su Spagna-Honduras. Che sia poi questa la reale motivazione della presente riflessione?
Giorno decimo
Vizi e nastri
Srotolano i nastri tricolore, tessono la ragnatela da un balcone all'altro gli spiderman delle città. Vogliono rivivere i riti collettivi, le emozioni di massa del mondiale scorso. Poco sembra cambiato da allora, gli Zambrotta, gli Iaquinta, i Caaannavaro, i Gattuso sono ancora lì, pronti al sacrificio da tributare al condottiero Lippi e a stimolare le urla scomposte dei tanti Caressa italiani. Quei nastri, ancora pochi, sono i binari su cui allontanare lo scetticismo e scambiarlo al primo incrocio con una ritrovata gioia, un falso orgoglio che richiami ad un altrettanto ipocrita sentimento nazional-popolare.
Ma il divin ferroviere ha altri programmi per questo secondo turno. Sì, perché il gol della Nuova Zelanda è per tanti il solito frutto del caso, "l'unico tiro in porta" (meno male che il sinistro diagonale di Wood non l'ha centrata, ma questo resta fuori dall'album dei ricordi postpartita) "così come era avvenuto contro il Paraguay". Tra l'altro, in fuorigioco. Bisogna sottolinearlo, e lasciar passare in secondo piano il rigore a dir poco dubbio con cui gli azzurri si rimettono in corsa. I soliti vizi di un Paese che si indigna fino alla morte per un fallo di mano di Henry, ma per cui le furbizie di casa sono da sempre "mestiere" o "esperienza".
Il vento s'insinua tra quei nastri, li smuove, si ribella dopo aver visto Marchisio schierato sulla fascia e Camoranesi che subentra invece a Pepe, non sulla fascia ma come vertice alto del centrocampo. Non ci resta che aspettare un successo con la Slovacchia per poter finalmente esplodere in strada.
O un pareggio con combinazione che permetta il passaggio del turno.
Così c'è ancora più sfizio, siamo italiani.
Giorno nono
Fiori d'arancio
Salto volentieri il turno.
I fiori d'arancio di mia sorella e Riccardo invece che l'arancio totale dell'Olanda.
Giorno ottavo
Il non più curioso caso di Benjamin Button
Riuscirà l'Inghilterra a passare il turno - e magari a vincere il mondiale - nonostante Capello? E dove è finita quell'altezzosa baldanza anglosassone che catturava gli occhi anche dei più distratti osservatori di football? Non è il tanto il pareggio contro l'Algeria a scandalizzare, né il rischio di clamorosa eliminazione che adesso i"Lions" masticano sotto denti resi lucidi da un precampionato perfetto. "Il risultato è casuale, la prestazione no", sostiene il Maestro. Lo scheletro degli inglesi è insolitamente fragile, una confusione di idee e di gioco la si era già vista ma non un'osteoporosi di grinta, un'astenia di ritmo. Più trascorrono i minuti, più la squadra si intimorisce, si incurva, si rannicchia invece di profondere uno sforzo maggiore. Invecchia, lì dove ringiovaniva. Paura, dove prima era coraggio.
Riusciranno, allora, i carboni ardenti su cui gli inglesi cammineranno in questa settimana a ricreare una magia, a ridarci una squadra? Confido nell'orgoglio dei biancocrociati, non nelle strategie di Capello: soltanto una prestazione "all'inglese", non un semplice punteggio favorevole, farà splendere di nuovo il sole sulla terra d'Albione. Altrimenti sarà il buio, nemmeno stavolta il football tornerà a casa.
Giorno settimo
Congiunzioni Sole-Nettuno
La sconfitta di misura della Nigeria ad opera della pallida Grecia sigilla le previsioni dei soliti strateghi che, indossato l'elmo del saccente buonismo, assicuravano la definitiva esplosione del calcio africano in terra madre. Per ora, purtroppo, non si registrano miglioramenti rispetto alle passate edizioni, forse perché i campioni al soldo delle squadre europee più ricche sono già stati spremuti per bene. Nonostante la buona volontà e il discreto tasso tecnico di ivoriani e ghanesi, a meno di miracoli, non ci saranno grandi novità e la mannaia calerà definitivamente al più agli ottavi di finale.
Crollo verticale della Francia. L'oroscopo di Domenech doveva girare male, strane congiunzioni Sole-Nettuno in questa seconda metà di giugno 2010. Errori di parallasse. Idee quante le particelle di sodio nell'acqua Lete. Disarmonia nei movimenti di squadra. Insipienza dei singoli. Paranormal Ribery resta ancora rospo e non si trasforma in principe; Henry il peccatore rimpiange quel fallo di mano che ha consentito ai suoi di raggiungere il Sudafrica e si scalda in panchina; Benzema se la ride dalla spiaggia su cui trascorre le vacanze. Carriera finita con disonore per il ct francese, a meno che non lo prenda prima o poi la Juve.
Giorno sesto
Filtri
I Bafana Bafana con tutti e due i piedi fuori dal mondiale. Le vuvuzela restano, però, sugli spalti: l'epidemia contagia i tifosi delle altre nazionali. Potere, nefasto, delle mode. Il virus va arginato subito, prima che arrivi a queste latitudini. In rete si moltiplicano i filtri audio per cercare di rimuovere le fastidiose frequenze.
Non c'è filtro, invece, per arginare la melensa retorica europea sul Sudafrica. Nel giorno in cui raggiunge vette altissime, non riesco a vedere due dei miei tre pupilli (l'altro è Rooney, ça va sans dire). Torres non gioca dall'inizio, credo e spero per condizioni fisiche non ideali e non per una colpevole sottovalutazione degli avversari. La Spagna paga a caro prezzo il favore dei pronostici, ma passerà ugualmente il turno, sulla carta è bella e forte. Matias Fernandez è una piccola gemma custodita gelosamente, ai tempi del Colo Colo, poi seguita nella sfortunata parentesi del Villareal prima e allo Sporting Lisbona poi. Ha reso meno delle aspettative, la faccia da bravo ragazzo palesa una timidezza di gioco (e giocate) sui campi europei che invece non esternava da giovane in Cile. Senza le spettacolari rabone con coda di scorpione (questa è mia, depennatela) sudamericane, Mati è più regolare nelle giocate ma comunque discontinuo. Ancora capace di illuminare con giocate tra il fortunato e l'incredibile come questa in Europa League.
Giorno quinto
Trillice, pondolo e minolo
Un altro terzino, Douglas Maicon, ha dato nuova declinazione alla più classica delle pedate verdeoro. L'ha fatta in movimento, in piena corsa, forse più potenza e meno giro, e dalla linea di fondo. Le tre-dita sono servite più ad ingannare il portiere, che si aspettava una palla al centro che assecondasse il naturale movimento del piede, che ad imprimere un effetto particolare. Chi dubita della volontarietà del gesto - del primo vero gesto di questo campionato del mondo - segue poco il calcio: il colpo è di quelli che il fluidificante nerazzurro prova con una certa costanza. È servito a sbloccare il Brasile da uno stallo che l'organizzazione difensiva della Corea del Nord avrebbe potuto esasperare di lì a poco. Un gol di ottima fattura, più importante di quello che potrebbe sembrare; non tale, comunque, da giustificare le lacrime del calciatore, davvero forzate. I lucciconi sono giustificati per i tifosi nerazzurri, che perderanno la colonna di destra su cui hanno costruito le proprie fortune. In compenso, non scenderanno a patron Moratti: le quotazioni di Maicon sono, per quanto possibile, in ulteriore rialzo.
Giorno quarto
Fuga da Alca(t)raz
Non un alito di vento a rianimare i pochi vessilli che decorano i balconi. Si accasciano, stanchi, sulle aste, svengono sulle ringhiere, tristi presagi di una partita dalla pressione bassa e dal battito rallentato. L'Italia parte bene, dicono i telecronisti. Invece gli azzurri servono la solita salsa, al massimo con un po' di Pepe. Sterile, anemico, catatonico il possesso, nessuna conclusione pericolosa. In questi casi, la storia insegna che serve un gol dei modesti avversari ad alzare il ritmo e regalare qualche emozione. Macché. Quando Alcaraz si infila tra De Rossi e Caaannavaro, affiora sì qualche incubo, ma in fondo i tifosi quasi quasi ci godono: si aspettano una repentina e arrembante reazione, elemosinano emozioni. Nulla di tutto ciò. Servirà l'enorme svarione di Villar: all'Italia per evitare la sconfitta; a De Rossi per espiare la colpa; a Lippi per indossare la solita spocchia. Tra lui e Mourinho ce ne passa, e Iaquinta non è Eto'o come Pepe non è Pandev. Malriuscito il tentativo di proporre un abito della collezione Ferguson, che al Manchester e all'Inter vestiva bene, rivedremo probabilmente un più classico e datato frac con due punte.
Nel frattempo, gli italiani si alzano dalla poltrona nemmeno delusi, fingendo rassegnazione e prendendo subito le distanze da questa nazionale. Basterà una vittoria per far loro rimangiare tutto, per far loro riportare in spalla gli idoli. Perché alla fine quel che conta è inebriarsi, sfilare, far festa, abbracciarsi, divertirsi. Non importa con chi. Non importa per cosa.
Giorno terzo
La tonicità delle patate
Guardo distrattamente soltanto il primo tempo, già satollo di Gran Premio e cena. Sembra sufficiente a farsi un'idea della tonicità dei “patatari” (copyright Skippy). Così chiudo rispolverando una massima di Gary Lineker: “Il calcio è uno sport in cui si va in campo undici contro undici e alla fine vince sempre la Germania”.
Giorno secondo
Taumaturghi e iperallenatori
Diego Armando Maradona non è un allenatore, su questo non si discute. Tant'è che c'è bisogno di chi ne faccia le veci, il trentacinquenne Juan Sebastian Veron.
Fabio Capello è un iperallenatore. Quello che cura tutto in maniera puntuale, un sergente di ferro, l'uomo di polso e con le stellette sul petto che tanto piace agli italiani. Pratico e “vincente”.
Giorno primo
I mondialisti non sono graditi in questa casa
Lo dico subito: non sopporto i mondialisti. Quelli che guardano le partite di calcio ogni quattro anni e si ergono a esperti commentatori, poi non sanno distinguere un fuorigioco attivo da uno passivo. Basta con la dittatura del pressapochismo, anche nel calcio. Il diritto alla parola bisogna conquistarselo. Il mio, l'ho guadagnato con una media di quattro partite a settimana, dall'Eccellenza lucana alla Champions League (detto così, può sembrare un sacrificio; non lo è affatto, ma mi è comodo in questa sede lasciarlo passare per tale), con gentili rigurgiti da parte di amici e amiche, con una pila di letture sul fùtbol. Taluni mondialisti, poi, ci scrivono anche su: nasconderanno con la facilità di prosa la pochezza tecnica dei contenuti, ricalcati sui commenti che in queste ore piovono da ogni nuvola mediatica e poi edulcorati con mestiere. Per questi professionisti dell'inchiostro e dell'onniscenza, il calcio non è passione né sport né gioco, solo l'ennesima ghiotta occasione per dimostrare di poter discettare con eleganza su tutto e per non essere esclusi dal sabba tricolore. Ecco, appunto. Il patriottismo becero e primitivo che si spalma nelle notti mondiali. Anche per questo, credo, in tempi non sospetti scelsi l'Inghilterra.
Diffidate da quelli che, alla domanda «e tu, per che squadra tifi?», rispondono «mah, per nessuna in particolare, io tifo per l'Italia». Evitateli! Meglio intavolare una discussione sulla trascendenza con un testimone di Geova che bussa alla tua porta di domenica mattina. Tanto li ritroverete tutti, maschi e (sigh!) femmine, a strombazzare al primo successo degli azzurri nel girone di qualificazione, a tirar tardi la notte, a fare il giro dei locali per commentare la disponibilità al sacrificio di Iaquinta e la visione di gioco di Montolivo.
Scelgo la partita sbagliata per cominciare. Francia-Uruguay si adagia perfettamente sulla dinamica monotona delle vuvuzela. All'inzio, ma proprio per i primi sei/sette secondi, quel rumore evoca pure piacevoli sensazioni: le finali di coppa Intercontinentale che si disputavano a Tokyo, ti svegliavi rincoglionito verso le 4, l'isopportabile cicaleccio inibiva il sonno e copriva la voce del telecronista. Mentre per le vuvuzela puoi confidare nella plasticità neuronale, per cui dopo un po' il tuo cervello dovrebbe tendere a non farci caso, lo stesso non può dirsi per la partita. L'emozione più grande è un primo piano di Ribery. E non è bella cosa: Paranormal activity è un cartone animato al confronto. Non resta dunque che appuntare le sentenze di Boban e Tardelli su Gourcuff, uno che "non merita questo palcoscenico", "senza personalità", che Domenech puntualmente sbaglia a schierare. Potrebbero tornare utili nel prosieguo.
Non un alito di vento a rianimare i pochi vessilli che decorano i balconi. Si accasciano, stanchi, sulle aste, svengono sulle ringhiere, tristi presagi di una partita dalla pressione bassa e dal battito rallentato. L'Italia parte bene, dicono i telecronisti. Invece gli azzurri servono la solita salsa, al massimo con un po' di Pepe. Sterile, anemico, catatonico il possesso, nessuna conclusione pericolosa. In questi casi, la storia insegna che serve un gol dei modesti avversari ad alzare il ritmo e regalare qualche emozione. Macché. Quando Alcaraz si infila tra De Rossi e Caaannavaro, affiora sì qualche incubo, ma in fondo i tifosi quasi quasi ci godono: si aspettano una repentina e arrembante reazione, elemosinano emozioni. Nulla di tutto ciò. Servirà l'enorme svarione di Villar: all'Italia per evitare la sconfitta; a De Rossi per espiare la colpa; a Lippi per indossare la solita spocchia. Tra lui e Mourinho ce ne passa, e Iaquinta non è Eto'o come Pepe non è Pandev. Malriuscito il tentativo di proporre un abito della collezione Ferguson, che al Manchester e all'Inter vestiva bene, rivedremo probabilmente un più classico e datato frac con due punte.
Nel frattempo, gli italiani si alzano dalla poltrona nemmeno delusi, fingendo rassegnazione e prendendo subito le distanze da questa nazionale. Basterà una vittoria per far loro rimangiare tutto, per far loro riportare in spalla gli idoli. Perché alla fine quel che conta è inebriarsi, sfilare, far festa, abbracciarsi, divertirsi. Non importa con chi. Non importa per cosa.
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